La Serenissima riprende la città... lento declino

Note ricavate dalle ricerche storiche di Mons. Elia Piu, Parroco della "Magnifica Comunità di Marano", che si ringrazia sentitamente.
 
I motivi per i quali l'Austria conservava gelosamente il possesso di Marano si comprendono da queste righe scritte nel 1536 dal capitano di Marano, l'austriaco Ermanno Grünoffer, all'ambasciatore cesareo in Venezia, Lopez de Soria: "Ho inteso che il Veneto dominio abbia spedito all'imperatore il gentiluomo Delfino con grande somma di denaro per comperare il forte di Marano, perché i Veneziani conoscono esser questo, uno dei forti migliori d'Italia e tanto prossimo a Venezia, da poter in sei ore fare tragitto da un luogo all'altro. Conoscono eziandio di quanto pregiudizio sarebbe loro questa fortezza in tempo di guerra, perché se anche tutti i passi in Italia fossero chiusi, sempre la Maestà sua potrebbe, valendosi di questo porto, ricevere dei soccorsi di gente dalla Spagna e dal Regno di Napoli ... ".

Dove a nulla era valso il ricorso alle armi, dove erano fallite le trattative ed i mercanteggiamenti, ebbe buon fine invece l'ardimento e l'astuzia di tre capitani di ventura, Beltrame Sacchia di Udine, Giuseppe Cipriani di Brescia e Bernardino de Castro di Pirano, i quali la notte del 2 gennaio del 1542, fingendosi mercanti di grano, introdussero nel canale una barca piena di armati e riuscirono ad occupare Marano e a far prigioniero il capitano Grünoffer. Le cose, davvero strane ed originali, avvennero così: Beltrame Sacchia, "coperto di una longa spada sotto ad un brochiero di ferro" con i suoi due sopra nominati compagni, con sessanta uomini e con due piccole barche cariche di grano, giunse al porto. Al capitano Grünoffer, che gli venne incontro, disse che, essendo diretto a Venezia per portare i sacchi di grano, era stato costretto a quei lidi da un vento impetuoso. Non sospettando il capitano che il Sacchia meditasse un tradimento, ordinò ad alcune barche pescherecce di aiutarlo ad avvicinarsi al porto. L'ordine fu eseguito, ma il Sacchia, toccata la riva, dato uno sguardo ai due compagni e scoperti gli uomini che aveva nascosti, gridò: "con orribile voce": "fora formento!".  E impugnata la spada, toltasi la pelliccia e buttate in acqua le stuoie che coprivano il grano, al grido di "Marco, Marco!, Franza, Franza! Turco, Turco!" sbarcò con i suoi uomini a terra, ferendo e uccidendo quanti incontrava per via. In fortezza fu opposta ai nuovi venuti una fiera resistenza, ma a nulla valse. anche perché per terra da Muzzana giunsero al Sacchia in aiuto ben 163 soldati.

I soldati imperiali che presidiavano la fortezza furono rinchiusi come prigionieri nella chiesa parrocchiale di S. Martino (che sorgeva nel medesimo luogo dell'attuale) mentre il Sacchia, diventato padrone della situazione, offriva la fortezza ad un altro famoso capitano di ventura, Pietro Strozzi, il quale essendo ai servizi del Re di Francia e da questi pagato, inalberò la bandiera di Francia sulla fortezza.

Pietro Sacchia rimase per qualche tempo a Marano come capitano della fortezza alle dipendenze dello Strozzi, poi riprese come commerciante le vie dell'Oriente, per ricomparire una volta ad Udine vestito da frate Servita e morire otto anni più tardi a Nisia nelle isole Curzolari.

L'imperatore Ferdinando d'Austria, che mal sopportava la perdita della fortezza, fece munire un piccolo forte, chiamato Maranutto, onde poter con l'artiglieria abbattere i bastioni di Marano. Frattanto Pietro Strozzi inviava a Venezia un certo Giovanni dei Pazzi, con il compito di mercanteggiare la fortezza, facendo astutamente intendere di cedere in caso negativo la medesima ai turchi. Fu cosi che lo Strozzi riuscì ad avere la bella somma di 35.000 ducati dal Senato veneto, che riottenne definitivamente il possesso tanto agognato della fortezza di Marano. Ciò avvenne il 29 novembre 1543.

Che Marano fosse importante per Venezia lo si arguisce anche dalle parole con le quali il duca Guidobaldo d'Urbino, governatore delle armi venete, faceva supplicare il doge Pietro Lando di "procurare con ogni modo per l'interesse del dominio veneto di riguadagnar Marano: il quale se in ogni tempo fosse stato pericoloso l'averlo contro, allora, era pericolosissimo". Lo stesso Guidobaldo d'Urbino, più tardi, provvederà, sentiti i suoi ingegneri militari, a tutte le opere di difesa della fortezza, per impedire gli assalti sia dei turchi come degli austriaci. Questi ultimi infatti, poco dopo, tolsero le truppe che ancora conservavano nelle vicinanze del forte di Maranutto e si accontentarono di rendere difficile la vita della fortezza e dei suoi abitanti con le vessazioni, a carattere fiscale, su coloro che per entrare ed uscire erano costretti a passare nei paraggi.

Le avventure di Beltrame Sacchia, Pietro Strozzi e Guidobaldo di Urbino rivivono anche ai giorni d'oggi nelle vie che a questi personaggi sono dedicate. Dopo questi avvenimenti e fino alla caduta della Repubblica di Venezia (1797), Marano rimase sempre sotto il dominio veneto. Avvenimenti importanti riguardanti Marano, la storia non ne registra. Ciò fa supporre che Marano, governato con saggia politica dai veneziani, abbia potuto finalmente godere di un lungo periodo di pace e di prosperità, quali nella sua storia, più che millenaria, mai aveva conosciuto.

La fortezza nata sotto Popone, come baluardo difensivo del dominio patriarcale, ebbe il suo maggiore splendore nei secoli XIV°, XV° e XVI°, quando il suo possesso strategico era maggiormente ambito e conteso.

Nel 1540, anno nel quale Giovanni Cortona ha dipinto la pianta più importante che esista (essa è conservata nell'archivio dei Savi di Venezia), la fortezza si presentava come un baluardo e una rocca di rara bellezza, posta come un'isola inespugnabile sul limitare della laguna. Aveva forma più o meno triangolare con la punta a sud, chiamata baluardo di S. Antonio, con due bastioni a nord, denominati di S. Giovanni e di S. Marco; ed un bastioncino ad est. Due porte consentivano l'uscita, una ad est detta "porta del mar" e l'altra a nord, di fronte alla terra ferma, detta, non si sa perché, "porta dell'oro". La prima permetteva ai militari l'esercizio della difesa sul mare ed ai pescatori locali l'attività della pesca, unica fonte di sostentamento degli abitanti di quel tempo; la seconda favoriva i contatti con la terra ferma, che erano per la verità molto pochi. Il circuito delle mura era di 620 passi, con 90 di questi nel lato nord, che era il più ridotto dei tre.  Sopra le mura, oltre alle fortificazioni, costituite da Bastioni e Baluardo, c'era un camminamento che consentiva alle sentinelle, che facevano la guardia giorno e notte, di adempiere al loro servizio di vigilanza lungo tutto il giro della fortezza.

La popolazione civile non superava mai le 700-800 anime, ma si riduceva anche alle 450 dell'inizio '600, o alle 400 del 1753. Il presidio ordinario di fanti era costituito da 100 uomini e quello straordinario variava dai 200 ad un massimo di 430.

La bestia nera della fortezza era la rocca di Maranutto opposta dagli Arciducali a poche centinaia di passi dal bastione di Marano, con pochissimi soldati, ma sufficienti, dato il posto strategico, ad infastidire la difesa e la navigazione veneta nella laguna e a taglieggiare il piccolo commercio di cabotaggio locale e quello altresì di rifornimento tra i centri interni della Patria (Palma) e la laguna veneziana.

Decadenza Veneta

Allontanatisi i difficili momenti del '400 e '500, l'interesse del governo centrale di Venezia per i problemi militari della fortezza di Marano venne man mano attenuandosi, salvo qualche rinnovata attenzione negli anni in cui la Serenissima era impegnata in qualche guerra o sospetto di guerra; il Senato veneto nella dispendiosa opera di manutenzione dei castelli e delle fortezze concentrava tutta la sua non elevata possibilità finanziaria su quelle fortezze, come Palmanova, che erano considerate indispensabili per la difesa della Repubblica.

Fu così che negli anni che vanno dalla fine del '500 alla caduta della Repubblica, la fortezza di Marano andò via via deteriorandosi per l'imbonimento del canale circostante, e per la mancanza di scavi e di lavori di ripristino a mura e bastioni, che si deterioravano man mano che il tempo passava. Prova di questa situazione sono le continue lamentele e richieste di intervento da parte dei provveditori della fortezza.

Ecco qualche esempio: Lorenzo Priuli (ottobre 1587) chiede: "la escavation della fossa ancor essa necessarissima poiché dalla porta del levante è quasi del tutto atterrata inoltre apporta un aere cattivo e pessimo agli abitanti, cosiché, essa fortezza, è poco onorevole e sicura". Marin Donato (dicembre 1604) supplica: "di ridur in stato sicuro quel luogo, che sebben è per se stesso assai forte rispetto al sito paludoso nel quale è riposto, patisce però delle imperfezioni assai ... ". " ... la fossa di detta fortezza, dalla parte della marina è tutta atterrata... le acque sono magre generando fettor notabile et aria pessima ... ... Reputo anco non piccolo mancamento, che in quel luoco non sia un favro di potersene servir nelli occorrenti bisogni... difficilmente ne ho trovato uno per far slongar et accomodar le catene del ponte levador, far arnesi per le fondamenta di detta porta che parimenti necessari a tali opere ... ". Ed il provveditore Giovan Battista Foscarini (ottobre 1621) torna alla carica con questa lamentela: " ... nella muraglia della parte di S. Antonio verso marina si trova una apertura con sacco per il lungo, seguita già molto tempo, per la mala qualità d'essa muraglia, et corrosa dalla salsedine, diffetto che rende difforme quella parte, posta in necessità di restaurazione et maggior difesa ... ".

La definitiva demolizione

Cessato alla fine del '700 il dominio veneto, lo stato di salute della fortezza è andato sempre peggiorando per il mancato intervento nelle riparazioni. Nemmeno gli scarsi interventi che i provveditori veneti operavano ogni tanto, vengono ora apportati dai nuovi padroni in tutt'altre faccende affaccendati.

Allo scarso rilievo ed importanza che la fortezza viene man mano avendo, si aggiungono nell'800 anche delle grandi epidemie, quali quella del 1836 e del 1886, che decimano la popolazione e che rendono Marano, colpito anche dalla miseria e dalla scarsità d'acqua, una località di impossibile abitazione. Sono questi i motivi che costringono il sindaco Rinaldo Olivotto, un uomo coraggioso e per certi aspetti lungimirante, vedasi ad esempio la costruzione dell'acquedotto e della pescheria, a chiedere e ad ottenere per la pubblica salute l'abbattimento delle mura, che impedivano l'areazione e che facilitavano con l'acqua stagnante il ripetersi delle epidemie.

Dell'Olivotto abbiamo detto "lungimirante per certi aspetti" perché giudicando a posteriori la sua impresa non può non essere catalogata che come nefasta. Egli nel suo libro «Marano, volo attraverso i secoli» la giustifica così: "Il forestiero che prima d'ora veniva a Marano, restava fortemente impressionato dal cimitero, solo 500 metri discosto dall'abitato, e veniva rattristato da due fosse altrettanto larghe, cariche di putrida melma, a cui accrescevano la morbosità altre due sul posto. Oppresso poi da pesante ed irresistibile fetore al suo entrare in paese, egli lo vedeva all'imo della profonda conca formata dai terrapieni e dalle mura che circondavano e soffocavano le 200 case dell'abitato ed alle stesse toglievano luce, aria e sole, un senso di confusione verso gli abitanti gli nasceva poi, sapendo che dai terrapieni, deposito secolare di tutte le immondizie, si riversava su tutte le abitazioni e si infiltrava nelle interne, un'acqua satura di sostanze mefitiche ed altri elementi mortiferi ... ".

Così stante la situazione, difficilmente possiamo dargli torto, anche se con il senno di poi, sappiamo che per il risanamento di Marano potevano essere tentate altre vie e che nonostante tutto epidemie, malaria e miseria continuarono ancora per molto tempo. Nell'abbattimento delle mura nelle vicinanze del Bastion di S. Giovanni furono ritrovati i resti di una chiesa - pavimento, muro perimetrale di buona altezza con 12 nicchie - che poteva essere se non la chiesa del Sinodo, almeno una delle prime chiese della comunità cristiana di Marano; siccome in quei tempi prima delle preoccupazioni di carattere archeologico, urgevano quelle di carattere pratico, ci si affrettò a costruire su quel posto una bella linea (allora!) di case popolari e gli importanti reperti storici andarono del tutto dispersi. Era l'anno 1890, l'anno della morte definitiva di una fortezza che per un millennio circa, era stata una vigile sentinella dell'alto Adriatico.